Firenze, IdMiS, 2015, 480 pp., 16 €1. Si ringrazia il Circolo ricreativo “Bella Ciao” di Giogoli (Scandicci FI), per il contributo sostanziale che ci ha permesso di pubblicare l’edizione.


Dalla Prefazione di Paolo Bassi

[...]In questo volume come in altri sulla Resistenza si raccontano luoghi e personaggi delle nostre colline di Scandicci, di Vingone, di Marciola, il ristorante Fiore di Marciola e l’Amico Ferdinando Salvadori detto “Fiore”, viottoli nei campi e nei boschi delle colline di Scandicci, alcuni fatti accaduti fra la località di Marciola e il Pian de Cerri. Nel leggere questo libro ritrovo alcuni episodi di cui anche io sono stato partecipe senza saperlo (vedi pag.328) dove Aldo dice «Abbiamo lasciato alla nostra destra la punta estrema della Fortezza da Basso ed usciamo dalla protezione che con una mitragliatrice», (aggiungo io) da 20 mm, «piazzata sull’angolo formato dalle grosse mura della Fortezza i partigiani della Lanciotto IV compagnia ci avevano assicurato fino a quel punto». Di essa facevo parte con il nome “Grillo”. Oppure, altro episodio al quale presi parte: ero nel 22° Reggimento del gruppo di combattimento Cremona; essendo già finita la guerra ci arrivò la notizia che il principe di piemonte ci avrebbe passati in rassegna; come racconta Aldo nacque una discussione generale su come comportarsi in quell’istante. Tutta la divisione fu trasferita a Piove di Sacco; con noi erano anche i partigiani di Bulow. Iniziò la rassegna del primo reparto: era il 21° reggimento il quale aveva optato per i fischi. Mentre il 22° regg. quando fu dato il present’arm: tutti i componenti rimasero sul riposo mentre i partigiani di Bulow facevano la scorta con i motociclisti, al principe e agli ufficiali inglesi.[...]


Dall'Introduzione di Elio Varriale

Il romanzo autobiografico di Aldo Fagioli, Partigiano a 15 anni, con i suoi 10 capitoli in oltre quattrocento pagine piacevolmente scritte, è da considerarsi una delle più importanti opere della memorialistica sulla Resistenza fiorentina. I fatti, intessuti nello scorrevole racconto di colui che fu un giovanissimo protagonista della vita partigiana, quasi un Metello Salani pratoliniano trasposto nel suo analogo resistenziale, ci portano, come in un romanzo di formazione con sporadici interventi di narrazione onnisciente, a vivere le esperienze di un ragazzo sanfredianino, di famiglia popolare cattolica antifascista (il padre era «come si usava dire, un "bigio"»), che, a partire da una compagnia di ragazzi di Piazza del Cestello, inizia a fantasticare sul modo di far saltare in aria un carro armato tedesco in una Firenze rimilitarizzata dopo il 25 luglio 1943. Il volontaristico impegno, in potenza già nella «voglia di fare» che dalla distribuzione di volantini comunisti spinge un gruppo a divenire autore di alcune scritte sui muri della Firenze occupata, porta ad uno slancio politico sempre più diretto e, dunque, alla strada della "montagna".

Il racconto vissuto dall'Autore, che muove dagli occhi del protagonista, vede un gruppo di tre ragazzi che vanno alla macchia: Aldo, Ardengo Fossi e Luciano Suisola saranno parte di uno dei più rilevanti nuclei della Resistenza fiorentina sin dalla sua formazione; sulle colline di Scandicci incontreranno il non ancora «eroe nazionale» e Medaglia d'oro, Bruno Fanciullacci. I ritratti eseguiti da Ottone Rosai nel suo studio riportati nel libro illustrano i più rilevanti personaggi della formazione del protagonista (ossia dell'Autore): Luciano è l'amico di poco più grande con il quale ha intrapreso il viaggio da San Frediano; Bruno il «fratello maggiore» da cui apprendere i rudimenti politici e militari, essendo Aldo ancora giovanissimo e dunque privo dell'esperienza dell'esercito che era stata tappa per la maturazione di molti altri partigiani – esercito del tempo di guerra.

L'esperienza partigiana lo porterà alla vita clandestina dei Gruppi d'Azione Patriottica, a quella di montagna con la garibaldina Brigata "Sinigaglia", alla Liberazione di Firenze a fianco di Potente e di Gracco, al riconoscimento del grado di Comandante di Distaccamento (equiparato esercito sottotenente), alla condanna a 45 giorni di detenzione dopo pochi mesi dalla Liberazione per futili reati (mancata comunicazione alle autorità regie od alleate di un allontanamento dal luogo di residenza maggiore di 10 Km), alla commutazione dei giorni di prigionia in quanto minorenne in riformatorio, al proseguimento della lotta sino all'insurrezione nazionale ed alla Liberazione di Venezia a cui partecipò in una nuova esperienza da guerra di trincea sulla Linea Gotica non rinunciando alla profonda spinta ideale e politica, contrapponendo alla condizione di «automa» ai mortai inquadrato nella divisione «Cremona» del regio esercito italiano, l'organizzazione del Partito, portando in un esercito ancora basato sulle medesime gerarchie e modalità antecedenti al crollo del regime fascista, un istanza democratica – ossia, in quel contesto storico la preoccupazione che lo porta a:

«Io avevo il chiodo fisso delle armi, ma non ero il solo; per i partigiani comunisti appariva sempre più chiaro che in Italia, occupata dalle truppe di Sua Maestà britannica, a quei tempi gendarmi del capitalismo e dell’imperialismo nel mondo, non sarebbe cambiato nulla, che gli ideali di rinnovamento sociale e politico per i quali avevano combattuto tanti partigiani sarebbero rimasti solo un bel sogno, anzi sarebbe stato necessario difendere con la massima energia, e se necessario con le armi od almeno con la minaccia di ricorrere ad esse, la presenza dei partiti operai in Italia, in special modo quella del Partito Comunista. Con questa convinzione non avevamo consegnato le nostre armi a Firenze». 

A Liberazione avvenuta, come risposta ad una provocatoria ispezione di un millantato Capo delle Forze Armate – coerentemente rispetto a coloro che si definivano «mangiapreti e mangiaré» – scartando la scherzosa soluzione suggerita «qui ci vorrebbero proprio i gappisti» ma con un non minore rischio di essere deferiti dai Tribunali di guerra, l'istanza ideale e politica, partita da quel gruppo di combattenti volontari e fatta propria da un più vasto nucleo della Divisione, manifesterà il proprio massivo dissenso davanti al rappresentante del regime che cercava di arrogarsi la conquistata Liberazione, il luogotenente di quel Regno che pochi anni prima aveva ottenuto con Mussolini al Governo la più funzionale garanzia al mantenimento del suo status quo, il Principe di Piemonte Umberto di Savoia: l'erede al trono in rassegna ufficiale delle truppe fu accolto da una sonora fischiata.


Da Un ricordo di mio padre di Massimo Fagioli

Era l'estate del '67 e se pure mio padre, l'ex partigiano - e gappista, aggiungeva - aveva ormai seppellito l'ascia di guerra (o furtivamente nascosto la pistola, chissà?), gli ideali erano sempre quelli per cui tanti compagni ed amici avevano dato la vita, ed anche per questo certi princìpi rimanevano impossibili da rinnegare. Di più, costituivano il senso stesso e la bussola della vita; ma lo scenario era mutato e l'esistenza poneva ostacoli quotidiani non così facili da debellare. Abitavamo da qualche mese a Bologna, ultima tappa di un processo di sradicamento da Firenze iniziato dieci anni prima, alla base del quale vi era una somma di delusioni esistenziali e politiche. Mio padre aveva deciso il trasferimento, racconta mia madre, cogliendo al balzo un'offerta di lavoro, con la rapidità e la determinazione con cui si sferra un'azione dei Gap scaturita per caso, un po' avventata ma irrinunciabile. Quella scelta dovette sembrargli una risoluzione al tran tran di adattamento alla normalità che le esperienze estreme della sua adolescenza gli rendevano improbo. Non credo che mio padre abbia avuto a Bologna né in altre città del nostro esilio degli amici stretti, colleghi certamente sì ed anche alcuni compagni, ma di formazione ed esperienze molto diverse dalle sue. Anch'io, per tornare a quell'estate del '67, non mi ero molto ambientato nella nuova città: al ginnasio i compagni di classe mi sembravano marziani cristianizzati, interessati al massimo alle prodezze di un'ala destra, un'attaccabrighe che credo si chiamasse Pascutti, e poi c'era, più rassicurante, tal Bulgarelli. Il '68 era di lì là da venire, lontano un'eternità. Giunto all'età in cui il babbo aveva saltato il fosso e si era unito ai partigiani, io, più modestamente, spinto dalla solitudine alla quale tanti trasferimenti mi avevano abituato ma non corazzato, cominciai a bazzicare i capelloni - erano i primi che si vedevano in giro - che d'inverno bivaccavano nel sottopassaggio di piazza Re Enzo. In quella frettolosa città, loro sì che ne avevano di tempo da perdere. Se poi offrivi una sigaretta potevi unirti per tutto il pomeriggio a quel gruppo di allegri sfaccendati dove, tra una retata e l'altra della polizia, poteva capitare che il discorso cadesse su argomenti assai più intriganti che a scuola: lo slogan che andava forte era 'fate l'amore non fate la guerra' magari intonato in inglese sulle note di Bob Dylan. Tutta un'altra roba rispetto al greco antico propinatomi a scuola, le vicende di quegli Achei pazzi e furiosi biascicate da una professoressa di stampo ottocentesco, enorme e sdentata. Altro che Troia, l'incrocio dei venti era il Vietnam e l'inglese era anche la lingua del nemico, che proprio allora portava avanti con drammatica escalation la sua dannata campagna 'Search and destroy' 'Cerca e distruggi' (i Vietcong). Forte della scuola quadri che avevo ricevuto fin da quand'ero in fasce, drizzavo gli orecchi quando il tema si faceva caldo e qualche volta potevo dire la mia, anche se ero un adolescente appena. Mi chiesero di dove venivo, da quel giorno per tutti divenni 'Firenze'.

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